Dal coraggio delle prime cooperative agli esperimenti visionari dei Mustilli, il territorio del Sannio riscopre nella Falanghina il simbolo di una rinascita che unisce identità, innovazione e paesaggio

C’è un’espressione che sintetizza alla perfezione ciò che oggi accade nel cuore del Beneventano: una terra in fermento.

L’ha evocata il professor Giuseppe Marotta, direttore del Dipartimento di diritto, economia, management e metodi quantitativi dell’Università del Sannio, durante l’incontro promosso dalla Regione Campania presso la Chiesa di San Francesco di Sant’Agata de’ Goti lo scorso 27 ottobre, nell’ambito del talk Praesentia – Gusto di Campania. Divina – Il Pomo della Concordia. Sannio, mele e Falanghina.

Un’immagine – quella di terra in fermento – che diventa chiave di lettura culturale di un territorio oggi al centro di una rinnovata attenzione e che è anche il titolo del volume “Terra in fermento. Il paesaggio culturale è antropico della Falanghina Doc come bene immateriale Unesco” (Il Mulino), a cura di Giuseppe Marotta, Elisabetta Moro, Concetta Nazzaro e Marino Niola, che approfondisce il valore identitario e simbolico della Falanghina come espressione del patrimonio immateriale della regione beneventana.

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La svolta Mustilli e la rinascita della Falanghina

La seconda grande trasformazione arrivò negli anni Settanta, quando alcuni imprenditori locali, in controtendenza rispetto al modello produttivo dominante, riscoprirono i vitigni autoctoni.

In quegli anni, la scena enologica del Sud Italia era ancora dominata da vitigni internazionali e nazionali – Cabernet, Merlot, Trebbiano, Malvasia, Sangiovese, Chardonnay – scelti per la loro resa produttiva e la facilità di vinificazione. Le varietà locali, tra cui la Falanghina, erano considerate marginali, spesso utilizzate per vini casalinghi o mescolate in uvaggi destinati alla grande distribuzione.

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Tuttavia, con la crescita della notorietà arrivarono anche le prime distorsioni di mercato: l’aumento delle superfici vitate e la produzione di vini di bassa qualità portarono, negli anni Novanta, a un progressivo declassamento dell’immagine della Falanghina. “Si vendeva Falanghina che probabilmente Falanghina non era”, ricordano le Mustilli, e il conseguente calo qualitativo minò la reputazione del vino.

Solo negli anni Duemila, grazie al lavoro del Consorzio di Tutela dei Vini del Sannio, si è tornati a valorizzare la qualità attraverso politiche di zonazione, con l’obiettivo di assegnare i terreni più vocati alla Falanghina del Sannio Doc e destinare le aree di pianura a produzioni diverse, come spumanti o vini Igt, evitando il rischio di una eccessiva standardizzazione.

Paesaggio, sostenibilità e nuove sfide

Nel frattempo, il paesaggio agrario è mutato profondamente: la meccanizzazione ha trasformato il volto della viticoltura, sostituendo progressivamente il tradizionale sistema a tendone – che proteggeva i grappoli dal sole e rifletteva un modello contadino familiare – con impianti a spalliera meccanizzabile, più efficienti ma meno tipici. Le aziende più grandi si orientano oggi verso una viticoltura di precisione, mentre nelle colline del Beneventano sopravvivono piccoli appezzamenti inferiori all’ettaro, dove la coltivazione resta a gestione familiare.

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Enoturismo e prodotti del territorio

La proposta enoturistica si integra con la valorizzazione dei prodotti del territorio – dall’olio all’ortofrutta, fino ai formaggi, ai salumi locali e all’attenta preparazione di piatti della tradizione familiare – in un’esperienza che racconta il Sannio come ecosistema culturale oltre che agricolo, con grande eleganza e raffinatezza, trasformando il vino in strumento di narrazione e di attrattività per il territorio.

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Fonte: Il Gusto – La Repubblica