Una ricerca sui formaggi DOP delle Università di Torino, Parma e Bari è riuscita a dimostrare che un consumatore allenato individua la qualità.
Vaccini, pecorini e caprini. Grassi, semigrassi e magri. A pasta dura, semidura e molle. Erborinati, freschi e stagionati. L’Italia, vista da un plateau di caci. «Come si può governare un Paese che ha 246 varietà differenti di formaggio?» si chiedeva De Gaulle per la Francia. Figurarsi il nostro Paese, che ne ha almeno il doppio.
La domanda che invece si sono posti i maestri dell’Organizzazione nazionale assaggiatori Formaggio che oggi si riuniscono al castello di Grinzane Cavour per l’assemblea annuale è un’altra: «È possibile, per un consumatore, distinguere i formaggi Dop da quelli non Dop, usando solo i propri sensi?».
Sembrerebbe proprio di sì, almeno secondo quanto evidenziato dal progetto Prin (Progetto di rilevanza nazionale) «PDOnonPDO Cheeses». Lo studio, durato dal 2020 al marzo 2025, è stato condotto dai ricercatori delle Università di Torino, Parma e Bari, coordinati dalla professoressa Monica Gatti, docente di Microbiologia dell’Università di Parma. L’obiettivo era quello di analizzare i formaggi etichettati con Denominazione di origine protetta e quelli ottenuti seguendo un’analoga specifica tecnologia di produzione, nella stessa area di produzione o in una zona diversa, commercializzati senza certificazione di origine. Gli esiti della ricerca verranno illustrati ai soci partecipanti all’assemblea nazionale da Giuseppe Zeppa, docente di Tecnologie alimentari e analisi sensoriale, che è stato il referente per la sezione sensoriale.
«Il progetto si è concluso il 20 marzo 2025, con un convegno a Parma – anticipa Zeppa -. L’apporto dei Maestri assaggiatori Onaf è stato fondamentale per la ricerca che affiancava l’analisi sensoriale a quella chimica e microbiologica».
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Fonte: La Stampa Cuneo