«Il protezionismo è sempre a somma negativa». Ne è convinto Raffaele Borriello, direttore generale dell’ISMEA, commentando la notizia appena arrivata dagli USA: il segretario all’agricoltura Sonny Perdue ieri ha stanziato 12 miliardi di dollari per compensare le perdite degli agricoltori americani a seguito dell’acuirsi delle tensioni commerciali con la Cina.
«Ecco, gli agricoltori perdono mercati, i consumatori spendono di più per l’acquisto degli stessi prodotti cinesi prima non gravati da dazi e infine l’amministrazione Trump deve mettere mano al portafoglio». L’ISMEA è anche l’ISTAT dell’agricoltura. Da questo punto di osservazione, Borriello (50 anni, da quattro direttore dell’ente pubblico-economico per lo sviluppo dell’agroalimentare italiano), è convinto che «il clima protezionistico non può che danneggiare l’agroalimentare italiano la cui vocazione esportatrice porta con sé una parallela esigenza di accrescere le importazioni. E evidente che in un mondo più protezionista, dove si esporta con maggiore difficoltà e dove si importa a co- sti maggiori, noi avremmo più da perdere che da guadagnare».
Ma il globalismo non è più di moda?
«Il mondo deve restare aperto ai commerci, che devono essere corretti. Rispetto al passato bisogna quindi garantire ai governi nazionali maggiori margini di manovra. L’Italia, è chiaro, non può pensare di affrontare da sola giganti come Usa, Cina, Russia. Dobbiamo farlo nel contesto europeo, cercando di valorizzare le nostre enormi potenzialità e difendendo l’identità culturale e i nostri modelli produttivi»
Che dimostrano che l’agricoltura italiana è una grande risorsa con uno stato di salute eccellente. 61 miliardi di euro di valore aggiunto, 1.4 milioni di occupati, oltre 1 milione di imprese e 41 miliardi nell’export.
«E vero. In particolare la componente agricola ha mostrato una grande tenuta economica e so- ciale nel corso della crisi e una buona capacità di ripartire. Un dato su tutti: la crescita della produttività è stata notevole, in controtendenza rispetto al resto dell’economia».
In numeri?
«Nell’ultimo decennio la produttività agricola, misurata dal valore aggiunto per occupato in termini reali, è cresciuta in totale del 9,5%, mentre l’intera economia registrava un -4,4%. Se la stagnazione della produttività del lavoro è indicata tra i fattori determinanti della bassa competitività dell’economia italiana e della bassa crescita del PIL, possiamo affermare che l’agricoltura ha superato gli anni di crisi decisamente meglio degli altri settori».
Il confronto però è negativo se guardiamo ai maggiori concorrenti europei.
«Sì, rispetto a Francia, Germania e Spagna scontiamo un gap sfavorevole ancora elevato in termini di strutture aziendali, efficienza, tecnologia e produttività».
In particolare?
«Per esempio, nell’accesso alla terra per chi vuole intraprendere nel settore. Un ettaro agricolo in Italia costa 6 volte in più rispetto alla Francia, 3 volte in più rispetto alla Spagna. E poi il dato sugli investimenti: durante la lunga crisi c’è stato un calo del 40%. Nel resto d’Europa hanno continuato a investire per creare infrastrutture al servizio dell’agricoltura, sfruttando tutti i fondi comunitari a disposizione. Noi non abbiamo messo soldi nostri e neanche speso quelli ricevuti dall’Unione Europea».
Pesa anche l’assenza di grandi catene italiane di distribuzione a livello mondiale.
«La filiera, in larga misura controllata da gruppi multinazionali, è strutturalmente squilibrata a favore delle imprese commerciali e di distribuzione. Il made in Italy tira, ma poi ci guadagna di più chi vende invece di chi produce. E la novità è che anche l’industria alimentare, che già guadagna più degli agricoltori, si trova sempre più schiacciata da un lato dalla esigenza di materia prima sempre più di qualità e costosa e dall’altro dai prezzi imposti dalle catene».
Fonte: Il Messaggero