Non verranno certo con la caciotta in spalla e il fiasco del vino, ma le produzioni straniere che imitano quelle italiane, in maniera del tutto lecita per le leggi del loro Paese, potranno trovare spazio all’Expo 2015. E così l’Italia si troverà a fare in conti con l’italian sounding in casa. «Il vero problema sono i Paesi terzi, dove non abbiamo copertura», dice Giuseppe Liberatore, presidente di Aicig, l’associazione che raggruppa i Consorzi delle Indicazioni geografiche. «La tutela avviene solo attraverso patti bilaterali, come in Canada dove si è fatto un buon accordo. Basti pensare che prima non si poteva importare prosciutto perché c’era qualcun altro che lo produceva nel Paese ed era l’unico che lo poteva vendere.Adesso siamo riusciti quanto meno a coesistere, Con gli Usa, invece, abbiamo le maggiori criticità. Lì è forte la lobby del Consortium for Common Food Names che sostiene che parmigiano o gorgonzola siano nomi generici, quindi si sentono liberi di usarli dove e quando vogliono Qui è la vera sfida e su questo faremo una battaglia campale». E l’Expo può essere un momento della battaglia. «Dobbiamo sensibilizzare più Paesi possibili, dimostrare l’importanza della denominazione, far capire quello che c’è dietro, il distretto che connota le nostre produzioni di qualità ». Anche per Mauro Rosati (foto a destra), direttore generale della Fondazione Qualivita, «l’Expo sarà la grande occasione per far conoscere il vero made in Italy. Non dovremo chiuderci a riccio, ma fare una operazione verità sulle nostre produzioni. Sarà l’occasione per far conoscere il vero, poi il consumatore capirà la differenza. Far vedere in diretta cosa sia il made in italy vale più di una legge odi una multa perché sono il territorio e la tradizione a fare la differenza».
20140605_Italia_Oggi.pdf