Il Sole 24 Ore

Tutto lasciava credere che sarebbe finita con un’altra debacle, dopo la pesante sconfitta incassata sul “made in”. Invece ieri, a Strasburgo, l’europarlamento, con un voto a schiacciante maggioranza, ha clamorosamente battuto il partito nordico degli importatori, i cui interessi sono tradizionalmente contrapposti a quelli dei produttori, coloro che per intendersi soffrono la concorrenza sleale di Cina, Vietnam e simili emergenti. In ballo, la riforma degli strumenti Ue di difesa commerciale

, la proposta della Commissione, già abbastanza poco tenera con le sensibilità dell’industria, poi estremizzata nei contenuti dal relatore parlamentare, il Ppe svedese Christofer Fjellner. Alla prova del voto però il castello è crollato. La spallata è arrivata da un’ampia coalizione formata da socialisti, popolari (tedeschi compresi), liberali e verdi. Bocciata la cosiddetta shipping clause, che faceva trascorrere 15 giorni dal momento dell’annuncio del dazio anti-dumping a quello della sua imposizione. Respinta la proposta di restituire i dazi agli importatori, se appurata la fine delle vendite sottocosto. Quanto alla regola che prevede l’applicazione del dazio minore rispetto all’effettiva entità del danno prodotto da pratiche commerciali sleali, ne sono state estese le eccezioni. Ora il braccio di ferro si sposta al Consiglio, dove però la maggioranza è a favore dello schieramento nordico, con la Germania finora pronta a tutto pur di non turbare le sue ottime relazioni commerciali con Pechino. «Comunque vada il negoziato con il Consiglio, torneremo a votare in plenaria in aprile» commenta Andrea Cozzolino, l’eurodeputato Pd che si è battuto sul dossier, convinto che «sia ora di chiedersi quanti posti di lavoro e quante imprese si cancellano in Europa con aperture del mercato prive di reciprocità».

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