Il Giornale
Sono solo battute. Più o meno. Tipo: il panino con le panelle è buono solo se sono fritte con l’olio tramandato di padre in figlio dai «panellari» di strada. I bolliti di Pepi «S’ciavo» (un’istituzione a Trieste) si gustano davvero solo in piedi davanti al bancone. E la piada romagnola, guai a chiamarla piadina, si fa con lo strutto: con l’olio è sacrilegio. E naturalmente bisogna schierarsi: o la versione Rimini o Cesena. Ora lo chiamano street food, ma è davvero quanto di più italiano, solo che ce lo eravamo dimenticati. Prima drogati dalle endorfine del cheddar cheese erogato a pioggia dai fast food, poi ipnotizzati dalle lusinghe radicai chic dello slow food.Tra una moda gastronomica e l’altra, ci siamo dimenticati la cucina vagabonda dei nostri paesi, che ci ha allevato, nutrito durante la ricreazione a scuola, ci risolve le migliori pause pranzo.Il fast food in Italia c’era già, e noi tutti a correre appresso all’hamburger sbarcato dall’America. Cosa c’è dipiù «fast» che prendere un pezzo di pizza «al taglio» per le strade di Roma, un’arancina (sostantivo femminile) a Palermo o un tramezzino a Venezia?E c’ era nella nostra cucina di strada, e c’è tuttora, pure lo slowfood: altro che zucchine a chilometro zero, queste specialità hanno carte d’identità chiare, pure semolte, seguendo la strada dell’emigrazione e degli affari, si sono sdoganate su piazze diverse da quelle originarie.