Denis Susanna, direttore del Consorzio di Tutela Radicchio Rosso di Treviso IGP, racconta un aneddoto, capitato a New York . “Quando è stato nominato il radicchio tardivo di Treviso IGP gli intervenuti si sono accesi, segno che il prodotto già lo conoscevano e lo apprezzavano” ma purtroppo, quello che a parole gli americani associavano al tardivo di Treviso non lo era veramente, perché, se escludiamo qualche spedizione spot dai 24 Comuni a cavallo tra Treviso, Venezia e Mestre che ricadono nel disciplinare di produzione, non parte nulla alla volta degli States.
Si trattava dunque di fake, un capitolo già noto di quell’Italian sounding. Nel caso specifico del tardivo di Treviso IGP, parliamo di un prodotto che certamente non si è fatto, come nella realtà, le due gelate invernali che sanciscono l’inizio della raccolta, non è stato lavorato a mano, e certamente non è stato sottoposto ai non meno di 20 giorni di ‘imbiancamento’ nelle acque a temperatura costante del Sile, il fiume di risorgiva più lungo d’Europa. Un danno d’immagine ed economico. Purtroppo, riprende il direttore, “se questo accadesse in Europea, l’IGP ci permetterebbe di intervenire come è già successo in Germania e in Olanda; fuori è tutto lasciato agli accordi bilaterali stato-stato” Come correre ai ripari?
Per una parte degli associati del consorzio la via da intraprendere è quella del passaggio dal’IGP alla DOP, oppure registrare un marchio collettivo privato. Il nome in corso di registrazione è Radicchio Rosso di Treviso, con cui marchiare la produzione IGP. Entro l’anno è attesa la registrazione per l’Italia e l’Europa, mentre successivamente avverrà anche in alcuni mercati extra-UE, quelli cioè appetibili per l’export, che oggi assorbe il 10% della produzione: Svizzera, Russia, Australia e Stati Uniti in primis
Fonte: freshplaza.it